da Quotidiano.net del 18 novembre
Addio a Jonah Lomu, una leggenda ci ha lasciati. Ecco perché ha cambiato per sempre la palla ovale. L’atleta che tenne a battesimo il rugby moderno non c’è più.
Pochi sono gli sport che, come il rugby, si alimentano e devono una parte considerevole del loro fascino alle leggende. E, di leggende, la palla ovale molte ne annovera e gelosamente custodisce in decine di Hall of fame. Alcune fatte di vetro e mattoni, altre di struggenti e, all’apparenza,irripetibili ricordi. Tutti i grandi dello sport, forma della palla con cui hano giocato o tipo di mezzo meccanico che hanno domato a parte, risultano accomunati da una rilevante longevità sportiva, da carriere che hanno percorso epopee agonistiche, solcato decenni di vittorie e di sconfitte, di polvere e di altari, come direbbe il poeta. Rari, nel mondo dello sport, i casi di atleti assurti al rango di venerato simbolo sulla scorta di pochi anni di frequentazione delle massime ribalte. A memoria, e di corsa: il grande Pete Pistol del basket Usa, schiantato da una coronaria difettosa a 41 anni durante un’esibizione nel suo vecchio liceo. E oggi lui, Siona Tali Lomu, per tutti Jonah. Il grande, l’immenso, il primo e unico Re leone della palla ovale. Un mito per la Nuova Zelanda e per il mondo intero, quello del rugby e non solo. Ha smesso di vivere ieri, a quarant’anni, nella sua Auckland, appena rientrato dall’Inghilterra. A placcarlo inesorabilmente una malattia rara e vigliacca che fin dall’età di 24 anni aveva messo a rischio il suo apparato renale e la sua stessa esistenza.
Jonah aveva lasciato il rugby vero, quello dei grandi, dopo il Mondiale del 1995 perso dai suoi (avvelenati?) All Blacks in Sud Africa contro gli Springbocks di Nelson Mandela. Seguì il trapianto e il faticoso tentativo di tornare quello di un tempo. Fallito e contrassegnato da poco onorevoli avventura anche europee (Galles per far vendere abbonamenti, e Francia fra i dilettanti con strascichi poco commendevoli di cause civili e di mancati pagamenti). La maglia nera sempre più lontana, gli equilibri familiari sempre più precari (tre matrimoni), l’affetto del suo popolo e dell’intero pianeta ovale costanti di una vita irrimediabilmente al tramonto. Nel 2010 disse definitivamente basta, accettò comparsate e investiture ufficiali, vederlo esibito negli stadi di mezzo mondo come simbolo di un rango e di una potenza ormi perdute fu spettacolo fra i meno nobili. Ma il mondo dello show biz lo reclamava. E lui rispose sempre: presente. Forse quella visibilità gli serviva, lo aiutava a sentirsi quel che non riusciva più a essere. Forse a servirgli era solo qualche manciata di dollari.
Fu il più giovane di sempre a indossare la maglia dei Tuttineri, e il più giovane a deporre le armi dopo aver illuminato la scena di un Mondiale appena nato con la strapotenza fisica di un rugby fatto “solo” di forza e di velocità. Le immagini di lui che schiaccia la palla oltre la linea bianca trascinando tre, a volte quattro avversari del tutto impotenti, è l’iconografia di un gioco che nasce da un gesto semplice e diretto, correre in avanti con la palla fra le mani, e in esso si sostanzia e si esalta fino ai livelil più elevati. Livelli che la breve carriera di super Jonah ha ripetutamente raggiunto e superato, mettendo al servizio di una causa comune l’immenso talento ricevuto in dono da Dio, dalla natura o da entrambi. Per gli statistici poche e scarne annotazioni: vinse due Super rugby (’96 e ’97) e un Npc nel 2000, vestì 63 volte la maglia della Nazionale del suo paese. Per gli amanti dello sport: un addio mesto e atteso. L’atleta che tenne a battesimo il rugby moderno non c’è più.
Giorgio Sbrocco